Il purpose washing nel branding è quella trappola sottile e pericolosa in cui molte aziende cadono quando cercano di raccontare valori sociali o ambientali senza sostenerli con azioni concrete. È un gioco di apparenze che, almeno all’inizio, sembra portare vantaggi economici e reputazionali, ma che alla lunga rischia di minare la fiducia delle persone e compromettere la credibilità del brand. Allora, perché è così importante capire cosa sia il purpose washing, come si collega all’UX e al branding e, soprattutto, come evitarlo con best practice efficaci?
Vediamo cosa si nasconde dietro la patina del marketing “etico” e cosa significa davvero usare il purpose per costruire un brand che sappia coinvolgere realmente le persone.

Il brand Amabile Jewels ha sempre professato l’autenticità, l’inclusività e la trasparenza, peccato che questi valori siano venuti meno in più di un’occasione.
Purpose washing: il trucco sporco dietro ai valori a parole
Il purpose washing è, in parole semplici, quando un’azienda cavalca temi sociali o ambientali solo per far cassa o accumulare like, senza pero fare passi concreti per sostenere quei valori che tanto dichiara. È il famigerato “predicare bene e razzolare male”, ma in versione brand strategy.
La promessa di un impatto positivo rimane solo un’azione di facciata. L’idea alla base è che legarsi a cause nobili faccia sembrare il marchio più cool, più responsabile, più del futuro. Peccato che, nella pratica, molte volte non sia altro che un lavaggio reputazionale bello e buono, senza alcuna vera sostanza.
E le conseguenze? Le persone oggi non sono più passive, fiutano subito le incoerenze e non perdonano. Quando parole e fatti non combaciano, il danno reputazionale è devastante. Ricordati di Amabile… o Ferragni. Non a caso, il purpose washing è stato ribattezzato “il lato oscuro dei valori aziendali”. Una promessa tradita che uccide trasparenza e fiducia.

Diagramma con le varie tipologie di Purpose Washing.
Il legame profondo con UX e branding
Viviamo in un contesto in cui l’esperienza utente è tutto e non basta dire di avere un purpose, bisogna farlo vivere in ogni interazione. Un purpose autentico non si limita a riempire slide o claim pubblicitari, ma crea emozioni autentiche: gioia, orgoglio, senso di appartenenza, che portano le persone non solo a scegliere un brand, ma a restargli fedele.
Tradotto in termini di UX: ogni touchpoint deve rispecchiare e amplificare il purpose. L’esperienza deve essere la prova tangibile che l’impegno sociale o ambientale non sono solo marketing. Altrimenti si scivola nel solito effetto campagna vuota, con la conseguenza di sprecare tempo, soldi e credibilità. Le aziende che ignorano questa connessione buttano via anche gli investimenti in design thinking e ricerche di mercato.

Corto circuito etico per il brand toscano Peuterey: certificazioni e gender equality da un lato, polemiche sul sessismo per il testimonial dall’altro.
Best practice per evitare il purpose washing
- Individuare il vero perché aziendale.
Il purpose nasce da convinzioni profonde, non da brainstorming improvvisati in un ufficio marketing. Serve chiarezza: perché esistiamo e che valore vogliamo davvero portare nel mondo? - Allineare azioni e comunicazione.
Parole e storytelling sono inutili se non sostenuti da iniziative concrete, trasparenti e misurabili. La coerenza è la moneta più importante. - Coinvolgere la comunità.
Clienti e dipendenti non vogliono essere spettatori. Renderli parte attiva di un progetto condiviso costruisce legami che durano. - Essere autentici e non cavalcare ogni moda social.
Cavalcare ogni trend topic social solo per fare trend hunting è il modo più veloce per sembrare finti. Meglio concentrarsi su pochi temi importanti e portarli avanti seriamente. - Misurare e comunicare i risultati veri.
Mostrare dati, progressi, impatti misurabili. E se ci sono limiti o errori? Ammetterli. La vulnerabilità, se autentica, paga più di mille campagne patinate.

La campagna Amorepacific promuove il riciclaggio dei flaconi vuoti per riutilizzarli nella produzione di nuovi packaging.
Aziende che lo fanno davvero e bene
Ci sono aziende, spesso sconosciute o poco diffuse nel mercato italiano, che il purpose-driven branding lo fanno davvero bene e da cui prendere sicuramente ispirazione:
Amorepacific: il purpose vissuto tra bellezza, empowerment e sostenibilità
Amorepacific, gigante coreano del beauty, non si limita a fare scena con slogan patinati, ma ha impostato la sua strategia di purpose su tre assi solidi: supporto sociale, empowerment femminile e sostenibilità ambientale e li porta avanti con iniziative concrete che entrano dritto nel cuore e nella vita delle persone.
- Supporto sociale e interventi di emergenza: niente hashtag vuoti, ma azioni tangibili. L’azienda è attiva con la Amorepacific Empathy Foundation per aiutare le vittime degli incendi boschivi in Corea, distribuendo kit di prima necessità e avviando progetti di riforestazione. Un segnale chiaro: l’impegno non si ferma al momento di crisi, ma si estende sul lungo periodo.
- Empowerment femminile: con campagne come “Makeup Your Life”, dal 2008 supporta donne malate di cancro offrendo prodotti e formazione per affrontare i cambiamenti estetici legati alla malattia. Finora ha aiutato oltre 18.000 pazienti, migliorandone il benessere psicologico ed emotivo. A questo si aggiunge “Lovely Life”, che sostiene le donne vulnerabili nel ricostruire la propria autonomia economica con corsi di formazione e supporto strutturato.
- Sostenibilità ambientale: qui l’approccio è sistemico, processi produttivi più puliti, gestione attenta dell’acqua e programmi di riciclo. Amorepacific rispetta standard internazionali di sostenibilità e spinge linee cosmetiche con packaging riciclabili e smaltibili responsabilmente.
Insomma, non chiacchiere, ma una strategia multidimensionale che rende palpabile e misurabile il loro impegno sociale e ambientale, evitando di finire nell’album dei brand che fanno greenwashing.

Cartello pubblicitario di Etsy Inc. all’esterno del mercato Nasdaq a Times Square.
Etsy: purpose e sostenibilità al servizio della community artigiana
Etsy non ha mai nascosto il suo vero cuore: sostenere gli artigiani e creare un ecosistema che metta al centro la community e l’impatto ambientale. Non è il solito e-commerce, qui la filosofia è opposta al fast shopping.
- La piattaforma compensa le emissioni di carbonio delle spedizioni e utilizza packaging sostenibili per ridurre l’impatto ambientale.
- In più, investe direttamente nella crescita degli artigiani offrendo formazione e strumenti per farli crescere in modo etico e responsabile.
Il risultato? Ogni acquisto su Etsy porta con sé una UX cucita per valorizzare la dimensione umana e sostenibile, trasformando l’atto di comprare in un gesto che sostiene comunità reali e non solo algoritmi.

ID.EIGHT crea sneakers con materiali riciclati e naturali, unendo stile e sostenibilità certificata.
ID.EIGHT: sneakers italo-coreane tra moda e circolarità
ID.EIGHT nasce dalla collaborazione tra un designer coreano e una product manager italiana, con un obiettivo chiaro: mettere la sostenibilità al centro della propria identità, senza slogan privi di sostanza. Il brand lavora con materiali innovativi ricavati da scarti alimentari e fibre riciclate, sperimentando modelli pensati per ridurre al minimo sprechi e impatti lungo tutto il ciclo produttivo.
- Design circolare: collezioni genderless ispirate agli anni ’90, progettate per semplificare il recupero dei materiali e sostituire la pelle tradizionale con alternative cruelty-free.
- Materiali innovativi: bucce di mela, vinaccia, foglie di ananas, cotone e poliestere riciclati trattati per essere resistenti e belli.
- Produzione trasparente: filiere tracciate con produzione in Italia, per garantire lavoro dignitoso e contenere le emissioni di trasporto.
Il risultato? Un brand che dimostra con fatti concreti che estetica contemporanea, funzionalità e circolarità possono convivere senza ricorrere a facili greenwashing o facciate di marketing.

Il brand Seventh Generation da sempre promuove campagne per ispirare un futuro sano, sostenibile ed equo.
Seventh Generation: sostenibilità e prodotti trasparenti
Seventh Generation è uno di quei brand americani che non lascia spazio alle ambiguità. Il purpose è chiaro e cristallino: ridurre l’impatto ambientale e offrire prodotti per la casa che rispettino persone e pianeta.
- Politiche rigorose sugli ingredienti: niente sostanze chimiche dannose, solo componenti naturali.
- Impegno attivo in campagne di sensibilizzazione ambientale, dal riciclo alla riduzione degli sprechi.
- Packaging che parlano da soli: trasparenti, informativi e pensati per creare fiducia immediata.
Tutta l’esperienza utente è costruita per trasmettere sicurezza e chiarezza, trasformando un acquisto quotidiano in un atto di responsabilità.

Nonostante l’apparente impegno sociale e le politiche di inclusività, Starbucks è stata spesso accusata di Ingiustizie razziali e discriminazione LGBTQ+.
Il purpose non è un trucco: è un investimento emotivo
Nel branding di oggi, il purpose è la nuova valuta dell’autenticità. Ma non è un shortcut per sembrare più buoni, richiede coerenza, coraggio e azioni concrete e i casi citati, veri o percepiti, mostrano quanto sia sottile la linea tra autenticità e marketing opportunistico. Il purpose washing nasce proprio dalla voglia di saltare la fatica e raccogliere consensi facili. Peccato che sia un autogol micidiale. Perdere la fiducia di chi conta davvero: le persone.
Per le aziende e per chi lavora con l’UX, la sfida è una sola: costruire esperienze che incarnino valori autentici e che li trasformino in azioni percepibili, tangibili, credibili.
Così il brand non solo conquista clienti, ma diventa parte di un racconto collettivo in cui le persone vogliono riconoscersi e, soprattutto, partecipare.
